In un capitolo interamente dedicato alle donne è meglio che la penna maschile si metta da parte, almeno per un po’, lasciando allo stesso genio femminile il compito di comporlo e d’informarlo. Quello che l’autore, con un’espressione nient’affatto spregiativa, ha definito “questione femminile” è un argomento ancora scottante, scivoloso. Soprattutto in ambito musicale, nonostante i notevoli progressi degli ultimi due secoli, la presenza delle donne compositrici suscita ancora delle perplessità “comparative”, la sensazione di un innegabile dislivello – aldilà di ogni segno e di ogni qualità – rispetto alla storia e alle opere dei loro colleghi uomini. Per questo motivo, piuttosto di farcire d’impertinenze questo scritto (notando che la questione del femminismo nell’arte compete tanti settori della ricerca umanistica, dall’antropologia alla sociologia et ultra), si è deciso di lasciare il microfono virtuale del dibattito a una eminente compositrice italiana: Elisabetta Brusa.
Quello che resta da aggiungere è una timida indicazione fenomenologica,utile per accostare il discorso delle donne nell’arte. La questione femminile può essere guardata come un’eccezione critica – esiziale e quasi trascendente dal punto di vista teologico, filosofico, se non addirittura “antroposofico” (per il quale la figura femminile, da Isis a Maria, è simbolo della Sofia celeste, dell’Uno femminile, origine, “matrice” dell’universo); – oppure può essere letta come un’indistinta normativa biologico-culturale, da colmare o da cancellare, da mettere in discussione o nel peggiore dei casi da mantenere soverchiamente intatta. Il femminismo è un fenomeno storico “recente”, la femminilità è un archetipo che si perde nella notte dei tempi. Quello che si può e si deve necessariamente denunciare è il lato deteriore del problema “donna”: la sottomissione, la preclusione maschilista, al peggio la violenza fisica e morale, che pure – senza falsi moralismi – resiste ai giorni nostri col suo contorno di mercificazione sessuale e “velinismo”. L’approccio che ci è sembrato migliore, in questa sede, è stato prima di tutto quello di mantenere uno sguardo storico-analitico libero, immediato, indifferente al genere sessuale della personalità presa scientificamente in considerazione; solo in un secondo momento ci si è resi disponibili ad accogliere e illuminare gli aspetti biografici più vicini al tema del femminismo. Considerando ancora la vicinanza storica del movimento femminista e la salienza di certi avvenimenti “storici” rappresenta davvero una parte importante di questa intervista.
- Le opere e i giorni di Giulia Recli sono analizzati in questa monografia a prescindere da qualsiasi parametro che non sia pertinente alla considerazione musicologica. Ciononostante, è impossibile tacere la sua storia di compositrice e di donna; un motivo di emarginazione, forse, se non di ostacolo per la sua carriera. Recli – la cui biografia comprende la storia saliente del femminismo occidentale (dal primo ’900del nascente suffragismo al femminismo combattivo del ’68) – è stata attivissima presidente del Lyceum milanese, contribuendo (senza bardature ideologiche, senza recriminazioni) all’emancipazione delle donne in campo artistico. Come autrice del nostro tempo, cosa pensa della “questione femminile”? Esiste ancora nell’ambiente musicale un incolmabile dislivello fra compositori e compositrici? Ancora emergono segnali di emarginazione o quantomeno d’indifferenza?
- L’emarginazione esiste per il semplice fatto che a capo di tutte le istituzioni le donne sono pressoché assenti e perdura soprattutto per un antico problema sociale legato alla figura della donna nella società: moglie, madre e custode della casa. Se in società (sotto questo aspetto più emancipate come quelle nordiche) il problema è stato in buona parte superato, in un modello come quello mediterraneo siamo ancora lontani da una vera emancipazione. Pesanti fardelli storici tuttora lo impediscono.
- Le tesi di una differenza biologica – o persino ontologica – fra persone di sesso razza religione diversa hanno dimostrato tutta la loro pericolosa vacuità nel secolo passato, e continuano a dimostrarla tuttora. Eppure, quando dialettiche e dualismi si sclerotizzano (dimostrando tutta la loro temporanea illusorietà) le differenze possono farsi sale per la convivenza, lievito della Vita. Alla luce di questo pensiero, cosa direbbe del particolare femminile? L’anima ricettiva della donna cosa può offrire alla sensibilità musicale e alla riflessione culturale? C’è ancora un’ineliminabile peculiarità – sia pure fisiologica – che arricchisce/condiziona/limita la donna?
- Il limite di natura fisiologica è stato in gran parte superato sul versante esecutivo. Le donne sono da tempo parte integrante delle orchestre e tantissime sono validi esempi tanto quanto gli uomini. È ovvio che la natura femminile, diversa da quella maschile, riverserà nell’atto dell’esecuzione musicale quella differente sensibilità derivante dalla differente percezione della vita. L’artista deve avere l’animo libero dalla quotidianità, sovente imposta alla figura femminile, ed una capacità di astrazione, intuizione e fantasia che richiedono tempo e concentrazione. Il talento femminile nelle Arti si è espresso scarsamente attraverso i secoli perché la percentuale di donne che si sono dedicate alle
Arti è stata irrisoria nei confronti di quella degli uomini e dunque la possibilità che ci fosse un genio tra esse è stata pressoché nulla. Inoltre, per le compositrici è stato ancora peggio perché c’è molta più tecnica da imparare che in qualsiasi altra Arte e proprio per questo ci vuole una capacità maggiore di astrazione per la creazione musicale per far sì che non sia mera riproduzione, ma anche che non diventi un mero gioco di note fine a sé stesse senza espressione artistica. L’astrazione fine a sé stessa. - La più recente storia della musica ha platealmente sconfessato la concezione di una palese quanto penosa penuria di compositrici donne, se non addirittura di una congenita inadeguatezza – da parte della donna stessa – alla creazione musicale. Francamente, qual è il suo pensiero su questo punto? Come si spiega, comunque, il limitato novero di compositrici rispetto al numero ben più ponderoso di esecutrici? Come si spiega il dislivello numerico fra musicisti e musiciste, fra musica e altri campi di espressione artistica al femminile? Apoditticamente (e anche un po’ provocatoriamente): perché grandi nomi di donne nel campo dell’arte non sono riusciti/non riescono tuttora a reggere – anche solo numericamente – il confronto dei loro corrispettivi maschili?
- Il motivo l’ho espresso sopra: i modelli storici e culturali perdurano e sono un’eredità difficile da eliminare e di certo, fin quando la nostra società si baserà su rapporti immobili e fin quando non saranno abbattute molte barriere, la donna avrà molte difficoltà per affermarsi, non solo in campo artistico. La donna non ha potuto emergere nel passato quindi non si può neanche parlare di percentuali. Nel 20° secolo la figura della donna creativa è aumentata, ma rispetto ai compositori uomini la sua percentuale è ancora irrisoria.
- Le “politiche dello stile” – secondo un’eloquente espressione di Alex Ross – sono state per la musica recliana un altro probabile motivo di emarginazione. Dal dopoguerra in poi (mentre in Italia – con ampio ritardo – s’importava la lezione “adorniana” delle avanguardie storiche) le fortune critiche ed esecutive di Recli scemavano, anche a causa del suo legame inscindibile con la cosiddetta “generazione dell’80” e con un segmento oramai tramontato della struttura sociale italiana (l’alta borghesia urbana, di ascendente e aperta simpatia monarchiche). Eppure, anche le avanguardie – nonostante la loro corrosiva e libertaria carica “tirannicida” – si sono fatte spesso strumento di soverchio oscuramento per le minoranze artistiche, all’insegna di una nuova e insospettabile dittatura culturale, di un fascismo mascherato. È possibile, anche rivalutando queste piccole “storie offuscate”, riconciliare un mondo della musica ancora oggi – in tempo di revisionismi e de-ideologizzazione – profondamente diviso e sospettoso? Ha un senso riportare alla luce l’opera di chi, in un determinato periodo della storia italiana, non dettava “lezione”? Perché, secondo lei, si danno artisti di successo – non considerando, ora, il momento in cui il successo è effettivamente raggiunto – e artisti, pure impeccabilmente esperti dell’arte loro, che rimangono inevitabilmente sui gradini più bassi del “podio”?
- Tutto ha senso quando lo si inquadra in una riscoperta storica, però se riscoprire autori ed opere significa assegnare un valore “anonimo” e fine a sé stesso, allora sarebbe meglio tralasciare le opere di riscoperta. Tanti autori sono stati riportati alla luce negli ultimi decenni, ma pochissimi hanno destato un vero interesse da parte degli addetti ai lavori e da parte del pubblico. Quanto alle possibilità di essere rappresentati il discorso è lungo: ancora perdurano le appartenenze a gruppi specifici nell’ambito della composizione, solitamente impermeabili ed auto referenzianti. Il modello è ancora quello del “Novecento”, sovente di tipo sperimentale e morto da un pezzo, ma ancora saldo per interessi particolari e per una non accettazione di pensieri differenti, anche se non “innovativi”.
- Recli – considerando almeno la professionalità della sua formazione e la qualità formale della sua scrittura – ha continuamente lottato per ottenere possibilità esecutive alla propria musica: occasioni maieutiche, non solamente vetrine auto-gratificanti. Questa silenziosa battaglia si compiva in un periodo – nonostante tutto – ancora favorevole alla diffusione della cultura musicale in Italia, al sostentamento di strutture orchestrali pubbliche (la RAI, unico veicolo – nel dopoguerra – di esecuzioni delle partiture recliane più grandi). Come valuta, oggi, la situazione artistica/culturale/politica del nostro paese? Quali possibilità sono riservate ai giovani compositori i quali, come Giulia, hanno lo stesso bisogno di opportunità formative?
- La situazione è sotto gli occhi di tutti: un declino rapido per la mancanza totale di un’istruzione musicale di base, fondamentale nell’infanzia come tante altre attività formative necessarie alla crescita dell’individuo. La nostra classe dirigente, di qualsiasi appartenenza politica e totalmente ignorante in questioni musicali, è sorda ed impenetrabile. Ci vorrebbe una vera rivoluzione culturale, ma sul come iniziarla nessuno lo sa. Troppi i modelli devianti e lontani da quella sensibilità necessaria per avvicinarsi all’arte musicale. Quanto alle possibilità riservate ai nostri giovani compositori direi che oggi, sotto l’aspetto di farsi conoscere internazionalmente, è più facile che nel passato. Le facilità nei contatti e le possibilità di viaggiare a basso costo per poter frequentare questa o quella scuola o il singolo artista, trent’anni fa erano riservate più ad un’élite. Almeno sotto quest’aspetto oggi non è così.
- Questa ricerca è stata promossa dalla famiglia di Giulia Recli e dal conservatorio di Milano (che, fra l’altro, l’ha vista per breve tempo docente fra le sue mura); inoltre, la Scuola è stata fondamentale palestra anche per Giulia (non solo Pizzetti e De Sabata, fra i suoi maestri, ma anche l’autorevole guida letteraria di Emilio de Marchi). Che cosa pensa delle scuole musicali italiane di oggi, anche dall’alto della sua professione/professionalità di docente?
- L’Italia è la nazione dei corsi e dei concorsi, per tutti i livelli e per tutte le tasche. Esiste un’educazione di livello medio, esattamente come alle università. Tutti le frequentano, pochi si laureano bene e pochissimi intraprendono un’attività desiderata e di soddisfazione. Direi che manca una vera formazione di base ed una di perfezionamento superiore di respiro internazionale, slegata dai soliti ambienti e dalle solite scuole che da decenni monopolizzano la cultura italiana.